Molti miei articoli nascono da spunti inaspettati: un caffè con un amico, un articolo di giornale, o un particolare apparentemente poco significativo. L’articolo di oggi è nato da Antonio, il mio parrucchiere. Andare da Antonio per me non è soltanto sistemare la chioma, ma è un momento nel quale ci confrontiamo entrambi sulle cose che gravitano intorno alla nostra vita: la politica, l’amore, i figli, il lavoro, l’amicizia e così via, con uno scambio trasparente dei nostri punti di vista, molto spesso identici nonostante proveniamo da mondi profondamente diversi.
L’ultima volta in cui sono andato da lui parlavamo proprio di lavoro e del fatto di come sia estremamente difficile per sua moglie – proprietaria anche lei di un negozio di acconciature – trovare del personale capace e affidabile, da far crescere nel corso del tempo e al quale trasferire responsabilità. Ci sono dei momenti nei quali si trova a dover sostituire una ragazza che lavora da lei e a non riuscire a trovare la figura adeguata. Questa cosa – come potete facilmente immaginare – impatta in maniera negativamente importante sulla sua economia imprenditoriale, tanto da dover fare delle rinunce personali e professionali.
Parlando con Antonio abbiamo approfondito questo tema, ovvero come fare a trattenere il personale, sia esso in un negozio o in un’azienda, tentando di arginare le lusinghiere sirene dei concorrenti. Antonio mi ha illuminato citando suo suocero, imprenditore nel campo della meccanica, il quale dice sempre una cosa: “I dipendenti li devi amare!” All’apparenza sembra una frase molto forte, anche bizzarra, ma se la andiamo ad analizzare è intrisa di verità.
L’imprenditore se raggiunge il successo lo deve sicuramente a una serie di proprie qualità, come una corretta visione del mercato, un approccio competitivo, la continua tenacia, la propria intelligenza e la capacità di prendere le decisioni, oltre a una serie di altri fattori. Ma tutto questo non sarebbe possibile senza il supporto fondamentale dei propri dipendenti.
Si badi bene, non sto parlando del management, di coloro che hanno in mano le responsabilità, ma di tutti i dipendenti, l’usciere, il mulettista, il personale della manutenzione, la linea di produzione via via fino alle persone al centralino. Sono loro che “traducono” in azioni quotidiane la visione dell’imprenditore e pertanto il successo aziendale deve essere condiviso con loro in toto. In questo senso l’imprenditore deve obbligatoriamente amare i propri dipendenti perché senza di essi non riuscirebbe mai a raggiungere nessun risultato. Amare, quindi, non nel senso classico, ma in un’accezione diffusa, essere fortemente affezionati, sentire un profondo attaccamento per loro, tenere a loro, alla loro vita e alla loro crescita, sia essa personale che professionale. Questo significa amarli.
Il mero fatto di dar loro semplicemente uno stipendio e ricevere in cambio del lavoro fa sì che il dipendente possa valutare di lasciare l’azienda nel momento esatto in cui riceverà un’offerta di lavoro che aumenti lo stipendio anche solo del 5%, perché se il rapporto si misura soltanto con lo stipendio ecco che si cercheranno solo le migliori condizioni economiche altrove. Allora si potrebbe affiancare un sistema di benefit, come un’auto aziendale, le spese mediche coperte o i buoni pasto, ma qualsiasi concorrente sarebbe in grado di competere a questo livello, rilanciando con un’offerta maggiormente attrattiva e allargata.
Un ulteriore innalzamento della proposta riguarda ovviamente un percorso di formazione professionale altamente qualificato che possa aumentare le competenze lavorative dei dipendenti. Questa è un’offerta certamente molto, molto interessante che si pone come una delle leve più convincenti per il passaggio di un dipendente da un’azienda a un’altra. La crescita professionale è un importante investimento di ogni professionista, ma è una pericolosa arma a doppio taglio, nel senso che chiunque può essere allettato da una proposta formativa di alto livello, salvo poi abbandonare l’azienda una volta che il proprio livello professionale sarà cresciuto e verrà apprezzato da un’altra azienda.
Allora dobbiamo trasferire le competenze e le capacità di gestione dei dipendenti in un altro campo, utilizzando elementi non tangibili, immateriali. Quali possono essere? Viene in nostro aiuto – tanto per cambiare – il mondo dello sport e, in particolare, il basket, al quale sono profondamente legato.
Dan Peterson, colui che ha fatto trionfare l’Olimpia Milano negli anni ’80 sia in Italia che in Europa, ha dato una monumentale lezione di gestione delle risorse umane durante un Clinic. Queste le sue esatte parole: «I ragazzi non vanno via da una squadra perché giocano poco. Magari si arrabbiano un po’, ci restano male. Ma non vanno via. Vanno via quando capiscono che per il loro coach non sono importanti». Sono due cose diverse. «All’inizio di ogni allenamento io mi metto davanti alla porta dello spogliatoio. Un giocatore entra e io gli dico una stupidata qualsiasi. Che belle scarpe che hai comprato! Ieri sera com’è andata con la tua fidanzata? Non basta un semplice ciao. Devo fargli sentire che mi sono accorto di lui e che lui per me è importante. Altrimenti è inutile che lo alleni».
Fate sentire i ragazzi importanti. Una telefonata a casa per dire com’è andata a scuola, una chiacchierata fuori dall’allenamento, un quotidiano appassionarsi alla loro vita, un esserci quando hanno bisogno. Questo va fatto con tutti e con ciascuno. E con quelli “scarsi“, che giocano meno, va fatto due volte. Con una passione ed una intensità doppia. «Se si ragiona così, i ragazzi resteranno nella vostra squadra. Non perché giocano tanto, o poco. Ma perché sanno di essere importanti per voi». Chi gestisce delle persone deve averle a cuore, deve amarle, deve farle sentire importanti.
Ci sarebbero molte azioni da intraprendere, ma se posso indicarne almeno una, mi permetto di indicare questa: eliminate gli smartphone nelle riunioni. Non li portate proprio, lasciateli da qualche parte, chiudeteli in un cassetto, nella vostra postazione, ma non li portate. Immaginate di arrivare in una sala riunione e trovare un collega che guarda i social sul proprio telefono. Voi appena entrati, cosa fareste? Esattamente la stessa cosa.
Ci sono due colleghi in una sala e non si parlano tra loro, ma non dico di business, ma nemmeno di vita. “Hey, mi hanno detto che non sei venuto al lavoro per diversi giorni, hai avuto la febbre? Stai bene adesso? Cosa è successo?”. Questa è la costruzione di una relazione, un interesse di una persona per un suo collega o per qualcuno di cui è responsabile. Voglio sapere come sta, cosa gli è successo, mi interessa.
Un altro esempio? “Vado sempre a pranzo negli stessi posti, hai qualcosa di bello da consigliarmi per cambiare un po’?” Sono domande che si rivolgono sempre meno all’interno di un’azienda o che, perlomeno, si rivolgono soltanto alla cerchia più ristretta di colleghi, quando in realtà tutti i miei colleghi sono importanti perché lavoriamo insieme. Costruire rapporti, accorgersi che i colleghi non sono dei badge o dei numeri di interno, ma delle persone, con il loro bagaglio di esperienze, di problemi e di risorse.
Quali sono i requisiti più richiesti dalle persone quando cercano un lavoro? Una ricerca di qualche mese fa di Randstad, società multinazionale che si occupa di ricerca, selezione e formazione di risorse umane, indica che al primo posto con il 62% di preferenze si pone l’equilibrio lavoro-vita privata e al secondo posto con il 60% l’atmosfera di lavoro piacevole, due aspetti non esattamente tangibili, soprattutto la seconda. Solo al terzo posto la retribuzione (57%).
Quindi la leva per far sì che le persone restino in azienda è assolutamente legata al mondo immateriale, le persone devono essere felici di arrivare in azienda al mattino, deve essere un ambiente piacevole, rilassante, rassicurante ben sapendo che però si deve lavorare, ma c’è modo e modo per poterlo fare.
Se una persona si sente importante in un ambiente di lavoro sarà indubbiamente molto più difficile che ceda alle lusinghe della concorrenza.