Lo chef stellato di fama internazionale Massimo Spigaroli – universalmente riconosciuto come il “re del culatello” – ci accoglie in una delle affascinanti sale del ristorante e relais da 1 Stella Michelin, uno scrigno di bellezza, gusto e tradizione. Seduto su una poltrona, inizia a raccontare.
LA FAMIGLIA SPIGAROLI
La storia della famiglia Spigaroli nasce sugli argini sabbiosi del Po. Lo stesso Grande Fiume e gli stessi luoghi tanto amati daGiovannino Guareschi e fonte d’ispirazione per le vicende di Don Camillo e Peppone. «Sin dal 1882, mio bisnonno Carlo ha lavorato come mezzadro nell’zienda Piantadora, di proprietà del maestro Giuseppe Verdi. I salumi tanto raccontati da Verdi nelle sue lettere come suoi “compagni di viaggio” erano quelliprodotti da mio bisnonno Carlo con mio nonno Luigi» racconta Massimo Spigaroli.
Terminato il lavoro di mezzadro, il bisnonno di Spigaroli passò a quello di affittuario della “Corte Pallavicina”, dove gli Spigaroli vissero fino agli anni Quaranta del secolo scorso. Allevavano polli, maiali, tacchini, anatre, oche e bachi da seta. D’inverno si trasformavano in norcini, producevano latte, burro e formaggio.
Negli anni del boom economico, al “Cavallino Bianco” si mangiavano squisiti prodotti tipici e si ballava con le canzoni di Rita Pavone e Caterina Caselli, che arrivavano a Polesine Parmense per esibirsi nel ristorante degli Spigaroli. Un miracolo tutto italiano.
STORIA PERSONALE
«Io e i miei fratelli, Luciano e Luigi, siamo nati in una famiglia nella quale si lavorava sempre. Dopo il servizio dell’ora di pranzo, nel pomeriggio la cucina del Cavallino Bianco si animava col rito della preparazione della pasta. Io, per gioco, con la supervisione della zia Emilia, muovevo sui taglieri di legno immaginari eserciti. Questo è stato il mio primo approccio alla pasta. L’altro rito consisteva nel dar da mangiare ai maiali con mio padre». Massimo Spigaroli decide di frequentare la scuola alberghiera di Salsomaggiore Terme, diplomandosi a pieni voti. La prima esperienza, lontano da casa, è all’Hotel Royal di Courmayeur, seguito da altri alberghi in giro per l’Italia, tra cui il Gritti di Venezia.
«Mia madre, grande donna, con un’intelligenza superiore alla media rispetto ai tempi, regalò a me e a un mio amico un biglietto ferroviario per la Francia, nel piccolo paese di Collonges-au-Mont-d’Or, vicino a Lione, da Paul Bocuse, chef da 3 Stelle Michelin, nel suo ristorante gastronomico Auberge du Pont». La tappa successiva sarà Bourg-en-Bresse, patria di Georges Blanc e dei suoi polli, i più famosi al mondo. «In Francia ho imparato una lezione fondamentale: è inutile saper fare qualcosa, anche bene, se poi non lo sai valorizzare e comunicare come si deve, perché il cibo va raccontato». Negli anni Settanta, Massimo prende definitivamente le redini della cucina del “Cavallino Bianco”, si distingue in svariati concorsi nazionali ed internazionali e la fama del giovane cuoco è in continua ascesa. Il 1990 è un anno cruciale nella storia dello Chef.
«Mi ritorna in mente il momento in cui ho saputo che avrebbero venduto il castello dove la mia famiglia aveva vissuto e lavorato cinquant’anni prima, fino al 1940. Ci siamo seduti al bar del Cavallino Bianco. Mamma mi chiese: “Cosa c’è?”. Io, trepidante e impaurito, risposi: “Vendono il castello”. Mio padre, che lì era nato e aveva vissuto metà della sua vitadisse: “E allora?”. Io risposi: “Bisogna comprarlo”. Papà, con le lacrime agli occhi, replicò: “Magari”» «Spendemmo 230 milioni delle vecchie lire, una cifra esorbitante per quello che ormai era solo un rudere, ma là stava tutta la nostra storia. Se non l’avessimo fatto, oggi sarei qui a rimpiangerlo».
In Italia il concetto di nouvelle cuisine si limitava solo all’estetica del piatto, senza valorizzare la materia prima. Interpretando correttamente il pensiero di Bocuse, Massimo Spiagroli avvia un processo di valorizzazione dei prodotti della sua terra, tanto che, la sua cucina gastro-fluviale (così ama definirla), nel 2011, a soli sette mesi dall’inaugurazione dell’“Antica Corte Pallavicina” (il cui restauro richiederà vent’anni di lavoro) verrà premiata con la Stella Michelin. «Ogni anno investivo nella ristrutturazione quello che potevo, senza fretta e soprattutto senza fare debiti».
Chef, lei ormai è considerato un maestro. Ma chi sono stati i suoi mentori?
«Da Giovanni Fanzaghi, docente di cucina dell’Istituto Alberghiero di Salsomaggiore Terme, ai francesi Jacques Guy, Georges Blanc e Paul Bocuse, e l’indimenticabile to Gualtiero Marchesi. Ma la “maestra” vera è stata la mia famiglia. Tra i più grandi insegnamenti che mi hanno trasmesso i miei genitori, i miei nonni e bisnonni c’è l’importanza della parola data, insieme al valore del denaro. Mi hanno insegnato a non rinnegare il nostro passato ricco di povertà».
Cosa significa essere cuoco al giorno d’oggi?
«Un vero cuoco non deve essere capace solo di far da mangiare, ma deve mettere in evidenza cucinando il suo territorio».
Quali sono attualmente le attività gestite dalla famiglia Spigaroli?
«Noi abbiamo sempre portato avanti tante attività, a partire dall’azienda agricola, dove produciamo i cereali che mangiano i nostri animali: mais e grano. Qui c’è anche un grande pollaio, dove alleviamo razze antiche e moderne e c’è un frutteto con 400 alberi. Poi lo storico ristorante “Il Cavallino Bianco”, l’“Hosteria del Maiale” e l’“Antica Corte Pallavicina”, il nostro gourmet».
Da Gerard Depardieu, a Robert De Niro e George Clooney, solo per citarne alcuni, sono innumerevoli i personaggi di fama passati dall’“Antica Corte Pallavicina”. Ma mi parli dell’incontro con il principe Carlo, oggi re del Regno Unito.
«Carlo, allora principe di Galles, dopo aver assaggiato il mio culatello, volle incontrarmi per capire come mai i suoi maiali non riuscivano a dare un culatello di qualità.
Fui invitato a Buckingham Palace. Il mattino seguente al mio arrivo ci trasferimmo in Galles, a Gloucester, presso la Duchy Home Farm, la fattoria biologica di proprietà di Carlo d’Inghilterra. Il principe mi disse: “Anch’io ho maiali di razza antica, ma non riesco a tirarci fuori nulla di buono. Per questo ho voluto incontrare il miglior artigiano italiano, per conoscere la sua formula magica”.
Seguirono tre giorni di conversazioni. E arrivò la fatidica domanda del principe: “Verrebbe a fare il culatello con i miei maiali?”. Risposi che, se fossi stato disonesto, lo avrei fatto. Il risultato però non sarebbe stato uguale. Per fare il culatello c’è un disciplinare molto rigoroso. Innanzitutto il peso dei maiali deve essere più elevato di quelli allevati in Inghilterra. Inoltre: il caldo afoso in estate, la nostra nebbia in autunno e inverno e le muffe nobili sono condizioni impossibili da replicare altrove. Sua Eccellenza apprezzò molto la mia onestà, tanto che decise di mandare i suoi maiali a Polesine, affinché li allevassi per lui. Da quel giorno è nata una bella amicizia, sancita da un rapporto epistolare che prosegue tutt’oggi. Dopo oltre vent’anni, nelle terre della Bassa pascolano i maiali di Sua Altezza Re Carlo III. Questa è la vittoria della mia terra».
Da quante persone è composto il suo staff?
«Tra agricoltura, produzione dei salumi e le varie attività siamo una cinquantina di persone».
Cos’è che caratterizza e differenzia una cena stellata da un’ottima cena?
«Non tutto ciò che è stallato è necessariamente di altissimo livello. Diciamo che dietro ci sono uno stile, un rigore e delle conoscenze specifiche. Ci sono stellati che fanno delle schiume nel piatto e altri che invece cucinano cibo concreto, raccontando la loro storia. Io sono tra questi».
Quanto costa una cena stellata all’“Antica Corte Pallavicina”?
«Ognuno fa il suo prezzo. Senza dubbio una cena stellata ha dei costi importanti. Direi, comunque, che il ristorante stellato ti dà l’immagine, ma non guadagni; anzi, devi stare molto attento a non perdere soldi. Tieni presente che per servire 20 persone ce ne vogliono quasi altrettante».
Chef, ci regala una sua ricetta?
«Gualtiero Marchesi veniva spesso da me, la nostra fu un’amicizia che durò vent’anni. Un giorno mangiò “I soffici ai tre Parmigiani in brodo di gallina fidentina in crosta di sfoglia”, un piatto che avevo ideato subito dopo le mie visite a Paul Bocuse, e il maestro lo metterà nei cinque piatti che gli hanno lasciato un segno nella sua vita gastronomica».
INGREDIENTI
Per la pasta brisé:
farina 700g, burro 320g, acqua 220ml, sale 15g, zucchero 10g.
Per i soffici:
ricotta 300g, Parmigiano Reggiano di pianura 50g, Parmigiano Reggiano di collina 50g, Parmigiano Reggiano di montagna 50g, uovo 1.
Brodo di gallina fidentina (o di cappone):
1 litro, tuorlo 1.
Preparare la pasta brisé:
amalgamare la ricotta, i tre Parmigiani e l’uovo per i soffici. Lasciar riposare il composto per almeno 1 ora in frigorifero. Servirsi poi dello stesso per realizzare delle piccole palline del diametro di circa 1,5 cm. Portare il brodo a ebollizione, verificandone la sapidità, aggiungere i soffici e cuocerli per circa 5 minuti. Una volta cotti, spostarli in un recipiente (esempio zuppiera) e coprirli con il disco di pasta brisé. Sigillare bene i bordi, spennellare la superficie con il rosso d’uovo e disporre sotto il grill o in forno statico a 180°C per 12 minuti, fino a che la pasta brisé non sarà diventata ambrata.
Tempo di preparazione:
30’ + 1 ora di riposo dell’impasto.