Per chi ha superato i 50 anni il nome Roberto Scarnecchia riporta alla memoria il calcio a cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80, quello di Antognoni, Rummenigge, Zico e Platini per citarne solo qualcuno. È stato protagonista nella seria A tra le fila di Roma, Napoli, Pisa e Milan giocando nella fascia destra, tanto da essere soprannominato “Speedy Gonzales” per la sua notevole velocità, e ha concluso la carriera professionista nel Barletta.
In totale, per gli amanti delle statistiche, ha conteggiato 167 presenze e realizzato 11 reti, tra le quali una nel derby meneghino di semifinale di coppa Italia, infilando Walter Zenga in uscita, gol che valse il passaggio
del turno per la finale.
Qualcun altro lo ricorderà al cinema, ne “L’allenatore nel pallone”,
mentre parla con Oronzo Canà, al secolo Lino Banfi (suo amico anche
nella vita reale) quando il Presidente della Longobarda si adoperava
per l’acquisto di Maradona che comprendeva i 3/4 Gentile, i 7/8 Collovati più la metà di Mike Bongiorno.
Carriera importante quella di Scarnecchia, che lo ha visto vincere
due Coppe Italia e una Mitropa Cup, ma come accade per tutti gli sportivi professionisti, arriva un momento nel quale bisogna occuparsi del “dopo”, comprendere che il proprio fisico non è più lo stesso e, di conseguenza, ragionare sulla professione che si intende svolgere una volta che le scarpette verranno appese al classico chiodo.
Questo momento per lui arriva a poco più di 30 anni, età che oggi appare assai giovane per un calciatore ma che negli anni ’80 era considerata un’età normale e ragionevole per smettere.
Scarnecchia ha un’enorme fortuna, ovvero quella di essere cresciuto
in una famiglia di appassionati di cucina, come succede una volta terminata la carriera sportiva si sono poi occupati di ristorazione. Molti diventano soci di ristoranti o catene di ristoranti anche di grande successo, come ad esempio Javier Zanetti, Fabio Cannavaro, Alex Del Piero, Pietro Paolo Virdis o Clarence Seedorf, ma essere chef è una questione completamente diversa, figuriamoci essere anche proprietari del ristorante nel quale si cucina.
Tra questi in Italia possiamo citare Davide Oldani, ex calciatore che
militava da giovanissimo in serie C2, il quale a causa di un grave infortunio in campo ha intrapreso la carriera dietro i fornelli fino a ottenere la doppia stella Michelin con il suo ristorante “D’O” appena fuori
Milano. In campo internazionale troviamo Jesper Blomqvist (ha
militato al Milan e al Parma e ha vinto il triplete con il Manchester
United nel 1999), il quale è sì proprietario di una pizzeria napoletana
pluripremiata a Stoccolma, ma tuttavia ha vinto il Celebrity Masterchef
svedese, quindi in qualche modo è capace di cucinare in
maniera eccellente.
Chi sicuramente ha avuto il maggior successo tra tutti è Gordon Ramsey, che ha giocato soltanto una manciata di partite con i Glasgow Rangers prima di infortunarsi gravemente anche lui e dover abbandonare un’incerta carriera come calciatore professionista per dedicarsi a una molto più proficua carriera nell’ambito gastronomico, riuscendo ad ottenere un totale di 17 stelle Michelin con i propri ristoranti sparsi per il mondo.
L’unica figura che si avvicina di più a Scarnecchia in campo internazionale è Bjorn Frantzén, il quale ha giocato quattro anni
nella prima divisione svedese con l’AIK salvo mollare tutto improvvisamente e dedicarsi in prima persona alla cucina. Oggi Frantzén gestisce e cucina nell’omonimo ristorante di Stoccolma, primo ristorante svedese in assoluto a ottenere le prestigiosissime 3 stelle
Michelin, e ha altri ristoranti sia in Svezia che in Asia.
Se non restiamo ancorati al solo mondo del calcio, ma allarghiamo
la visione all’intero universo sportivo, possiamo citare diverse
altre figure, ex sportivi professionisti che sono diventati cuochi:
Christian Milone, stella Michelin della Trattoria Zappatori a Pinerolo,
era ciclista professionista fino ai 25 anni e ha partecipato al
Giro d’Italia; Ana Roš, ex giovane sciatrice slovena che faceva parte
della nazionale di sci, ha abbandonato tutto per dedicarsi con
enorme successo alla ristorazione, tanto da aver vinto il titolo di migliore
chef donna del mondo nel 2017; Daniel Humm, altro ciclista professionista, ha smesso di gareggiare a 22 anni e oggi è chef e
proprietario dell’Eleven Madison Park di New York; Virgilio Martinez,
l’ambasciatore nel mondo della cucina peruviana, era a un
passo dal diventare professionista nello skate board, ma due gravi
infortuni lo hanno allontanato dalla tavola sulle ruote per portarlo
in un altro tipo di tavola, tanto da entrare una decina di anni fra i 50 ristoranti migliori al mondo.
Tornando a Roberto Scarnecchia, nel corso della sua seconda carriera, quella in ambito gastronomico, il suo ruolo è via via cresciuto in maniera esponenziale: comincia giocando “in casa” come “secondo” nel ristorante romano del padre aperto da poco e subito dopo gestisce la parte food del primo Milan Point e, in seguito, altri due locali sempre a Milano per arrivare in un continuo crescendo fino alla stella Michelin presso il ristorante “Il vino di Ismaro” a Carpeneto. Oggi ha tre ristoranti di proprietà, “La trattoria della Stampa” a Roma (e da poco anche a Milano), e “All in one” sempre a Roma e altri tre di prossima apertura nel 2024.
La carriera da calciatore lo ha aiutato molto nella nuova veste di chef. “La differenza tra me e i miei colleghi” evidenzia Scarnecchia “non è tanto nella preparazione, nella tecnica o negli studi intrapresi. Il percorso è pressoché simile a tutti e la stragrande maggioranza dei miei colleghi è ben preparata. Io ho l’enorme fortuna di aver vissuto una precedente vita professionale di grande successo e il privilegio di aver trasformato per la seconda volta nella mia vita una passione in un obiettivo di vita. Inoltre, proprio grazie ai miei anni in serie A, rispetto ai miei colleghi sono più preparato al successo, a stare sotto ai riflettori e a gestire periodi prolungati di forte pressione. Molti colleghi una volta raggiunto la fama hanno perduto i punti di riferimento, si sono “ubriacati” del successo stesso e si sono perduti, oppure non sono stati in grado di gestire la fortissima tensione fisica ed emotiva di questo tipo di lavoro”.
Purtroppo sono tantissimi i casi di cuochi che si sono tolti la vita a causa di problemi che lo stress della loro professione ha acuito enormemente, sino a compiere il gesto estremo.
Se riducessimo la vita post calciatore a semplice chef faremmo un grande torto a Scarnecchia, perché la formazione rappresenta un patrimonio importantissimo nella sua seconda vita sulla quale ha costruito solide fondamenta.
Infatti dopo due anni di lavoro nel ristorante del padre, Roberto ha deciso di volare oltre oceano e andare a studiare per ben quattro anni di fila ad Harvard, frequentando quattro differenti Master, tutti funzionali alla sua attività di chef e proprietario di ristoranti come Marketing, Business School e uno specifico sulla gestione delle risorse umane.
In particolare, durante il Master in “Science of cooking” da lui frequentato, la parte tecnica dedicata alle ricette era ridotta all’osso mentre vasto era il piano di studi sulla gestione amministrativa e commerciale del ristorante, che probabilmente è la parte più complessa da gestire in un ristorante, oltre a numerosi studi in chimica, botanica, agricoltura e molte altre discipline.
“Uno degli aneddoti più divertenti” racconta Scarnecchia “è stato quando ho cucinato per i professori di Harvard uno spaghetto aglio, olio e peperoncino. Io ero già bravo a cucinare e loro assolutamente impreparati nella cottura della pasta, tanto che la lasciavano a mollo nell’acqua bollente quando la cottura era oramai terminata. Credo che parlino ancora oggi di quel piatto di pasta ad Harvard.”
La formazione, in qualsiasi ambito professionale, è parte indispensabile nella crescita personale e aziendale, ma non può mai essere separata dalla tenacia nel perseguire e raggiungere gli obiettivi che ci si è prefissati.
Su questo argomento Scarnecchia ha le idee molto chiare: “La formazione è fondamentale per qualsiasi professione tu voglia intraprendere. Oggi, soprattutto nella ristorazione, non è pensabile non studiare approfonditamente le tecniche di trasformazione dei prodotti e le materie prime e guai a non restare aggiornati. Però è la tenacia che ti porta lontano e ti fa raggiungere grandi risultati. La formazione la puoi sempre acquisire prima o poi, la tenacia no, o ce l’hai o non ce l’hai”.
Rimanendo in ambito sportivo, Scarnecchia ha più volte affermato che vi è una stretta analogia tra la professione del calciatore e quella dello chef. Lo chef al mattino si occupa di tutte le preparazioni che sono necessarie per la realizzazione dei piatti che verranno serviti ai clienti, e questo non è altro che l’allenamento che viene compiuto quotidianamente dai calciatori. Se non ti alleni bene non potrai mai disputare una partita ad alto livello e, allo stesso modo, se non prepari bene gli ingredienti, le salse, i sughi, le preparazioni in genere e la linea di lavoro, il piatto che proporrai non potrà mai essere qualitativamente buono».
Poi arriva la partita, che il calciatore disputa una o due volte la settimana. Per il cuoco la sua partita, i suoi novanta minuti, sono il pranzo e la cena, che più o meno durano lo stesso minutaggio, il momento in cui si vince o si perde (il pareggio per i calciatori agonisti non è contemplato), il momento della verità, quello nel quale ti giochi tutto grazie anche all’aiuto dei tuoi compagni di squadra, ovvero tutti gli aiutanti della cucina, dall’aiuto cuoco a chi lava i piatti, senza dimenticare il personale di sala e quello delle pulizie.
La partita si vince o si perde tutti insieme, nessuno escluso. Puoi essere lo chef migliore del mondo e preparare un piatto straordinario, ma se il personale di sala ci mette troppo tempo a portarlo al cliente e arriva freddo, oppure se lo maneggia male, allora il piatto non è buono (non solo in termini gustativi) e tutti gli sforzi sono risultati inutili.
Se volessimo trasferire in ambito aziendale questa similitudine troveremmo un facile aggancio nella visione olistica dell’impresa, ovvero che l’impresa è rappresentata
da tutte le parti che la compongono,
inscindibilmente.
L’immagine dell’impresa viene scalfita agli occhi del consumatore non solo se il prodotto è scadente, ma anche (forse soprattutto?) se l’assistenza post-vendita non è eccellente, se la consegna del bene o di un suo componente è lenta o, addirittura, se in un negozio di un certo marchio devo attendere troppo ad essere servito.
Tutti concorrono a rafforzare e rendere forte e credibile il valore di un’azienda, dall’amministratore delegato con le sue scelte strategiche via via fino a chi risponde al call center per aiutare il consumatore nelle proprie scelte.
In questo, un ristorante – anche se in scala nettamente più ridotta – non è poi così differente da un’azienda.