“Volevo fare il professore” non è solo il titolo dell’ultima fatica letteraria del professor Corrado Sancilio, preside del polo universitario UniLodi, ma è anche un’intima rievocazione di un mondo che non c’è più: il mondo rurale sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso, già allora in fase calante e pronto a lasciare il passo all’industrializzazione del “boom economico”. Autobiografico, ricco di aneddoti e testimonianze di vita, il libro è soprattutto un omaggio e al contempo una disamina dei limiti di una società che, pur ricca di valori, rappresentava anche un freno alle ambizioni di chi non si sentiva di appartenere a un contesto sociale rigidamente diviso come i solchi di un aratro.
«Al di là dell’aspetto aneddotico», racconta Sancilio, «il messaggio del mio libro, rivolto ai giovani studenti, è un invito a una vita che sappia comportare scelte e rinunce per potersi realizzare. A prevalere, oggi, è l’idea che si possa conseguire ogni obiettivo in breve tempo e con poca fatica, ma questa è una pericolosa illusione; la vita vera è ben diversa. Nella società attuale è venuta meno la capacità di riprendersi e reagire e a preoccuparmi è soprattutto la sindrome di Peter Pan, cui sembrano soggetti in primo luogo i genitori».
Lo spunto di partenza del libro è stato offerto all’autore dal ritrovamento di una lettera, scritta nell’estate del 1977, da uno degli studenti di un professor Sancilio ancora alle prime armi.
«All’epoca, avevo cominciato a insegnare in una scuola media di Anzano di Puglia e lì conobbi Carmine, un ragazzo che arrivava a scuola ancora sporco, per aver pascolato le capre di suo padre. Alla fine di quell’anno scolastico, Carmine mi scrisse una lettera dalla Svizzera, dove aveva raggiunto il fratello, e in cui mi raccontava che intendeva riscattarsi da una vita che sentiva non appartenergli; che non corrispondeva alle sue aspirazioni. Il coraggio dimostrato da Carmine e la mia stessa esperienza, che poi mi avrebbe portato ad emigrare al Nord, per permettermi di realizzare il mio sogno, è stata la molla che mi ha spinto a scrivere un libro a cui pensavo da tempo». Come dicevamo, gli episodi narrati nel libro hanno come comune denominatore il mondo contadino del secolo scorso, a partire dal 1958, quando Sancilio aveva otto anni e, nonostante fosse un giovane alunno delle scuole elementari, aveva già ben chiaro che cosa avrebbe voluto fare da grande. Un mondo duro, quello di allora, come sa esserlo la terra arsa dal sole, ma proprio la sua rigidità, fatta di sacrifici e sobrietà, e i suoi valori ancestrali sono stati una scuola di vita per i ragazzi di quell’epoca, che hanno saputo sfruttare quegli stessi valori e insegnamenti per poi lasciare la “casa paterna” e costruirsi la propria vita altrove.
«Noto con piacere un rinnovato interesse per la terra e la sua coltivazione», prosegue Sancilio, «e questo mi fa piacere, perché il contatto con essa può insegnare molto. Da lei ho appreso tanto e non volevo lasciare che quel mondo che mi ha visto crescere cadesse nell’oblio; appartiene al passato, certo, ma i valori che ha saputo trasmettere a me e alla mia generazione quelli rimangono vivi e sono quelli che cerco di trasmettere agli studenti che frequento ogni giorno, incoraggiandoli e facendogli capire che le cadute, durante il percorso, sono sempre possibili e non vanno intese come un fallimento. Questo mi ha insegnato il mondo della mia infanzia».