«Ho capito tardi che dovevo smettere con il basket e che nessuno, tempo fa, era interessato ad avere un mental coach in azienda. Cambiare è difficile, faticoso doloroso. Ma, a volte, è vitale, altrimenti sei out. E le aziende, oggi più che mai, sono chiamate al cambiamento per far fronte a un mercato che si trasforma velocemente». Ne è convinto Andrea Anilonti, 50 anni, single, una figlia, Alice, di 7 anni, consulente e formatore aziendale.
«Sono come San Tommaso che ci metteva il naso. E dopo tentativi e fallimenti ho creato un metodo ad hoc che aiuta le aziende ad arrivare al successo».
L’ha inventato lei?
«No. E’ il frutto di tante esperienze. Per utilizzare un’immagine, è come un blended whiskey, la miscela di più stili di whiskey. La mia formazione, quindi, racchiude varie anime, frutto di più corsi di apprendimento e delle lezioni di insegnanti eccellenti. Avevo bisogno di più strumenti per poter supportare le aziende a potenziare i loro fatturati».
Lei ha avuto due vite lavorative. Ce le racconta?
«Nella mia prima vita ho fatto l’allenatore professionista di basket. E ho avuto la possibilità di collaborare con alcuni tra i migliori coach italiani, europei e americani. Ho, per esempio, lavorato con personaggi di statura internazionale come Zeliko Obradovic e Dragomir Bukvić. Ho guidato squadre maschili a Busto Arsizio e Saronno in C e B, e team femminili di Rho, Valmadrera e Cremona fra serie B e A».
Poi, che cosa è successo?
«Dopo 15 anni di coach professionista, è nata mia figlia e il basket ha cominciato ad andarmi stretto. A questo punto volevo propormi come mental coach alle aziende. Avevo l’esperienza necessaria, ma forse i tempi non erano maturi. Anche in questo caso l’ho capito testardamente tardi, anche se fare il coach mi ha fatto acquisire un’ottima competenza per quanto riguarda il lavorare per obiettivi, la gestione dello stress e di un team vincente. Ma avevo bisogno d’altro».
Cioè?
«Mi sono messo nel settore della formazione frequentando, come dicevo, corsi di importanti trainer e anche un master in neuroscienze. Inoltre, in ambito business, ho lavorato nell’ICT, mi sono occupato di problem solving, e di gestione/organizzazione delle infrastrutture tecnologiche».
Insomma aveva acquisito le competenze giuste. Da dove è partito?
«Ho fondato la mia azienda che ho chiamato “Zenith”: significa “puntare in alto”. E mi sono rivolto dapprima alle imprese in difficoltà perché avevano sì il commercialista che seguiva la parte fiscale, ma non un manager che si prendava cura della strategia aziendale che comprende tre principali filoni: formazione, strategia di marketing per aumentare le vendite, trasferimento di competenze senza le quali non si fa business. Per le Pmi, in pratica, faccio il temporary manager».
Mettiamo a terra il concetto di “strategia aziendale” con un caso concreto.
«Benissimo. Mi chiama un ristorante che dispone di un grande salone con 150 posti a sedere. Tutto funzionava come un orologio svizzero finché è arrivato il Covid e l’attività si è fermata».
Qual è stato il suo rimedio?
«Si è puntato subito sul delivery in modo da pareggiare i costi fissi».
Poi?
«E’ stato cambiato il contratto a quei dipendenti che ci stavano a rimanere al lavoro impiegando tutta la struttura a fare delivery».
Quindi?
«Per incrementare il numero delle consegne a domicilio, oltre alle solite app ne è stata realizzata un’altra personalizzata. Ma non è ancora finita».
Cioè?
«Il delivery si è allargato dai privati alle aziende del territorio. E’ stato un successo anche per due motivi: la cucina ha cominciato a lavorare gli impasti con ingredienti di qualità che sono stati reclamizzati con convincenti operazioni di marketing e il ristorante, inoltre, è riuscito a utilizzare specifici contenitori, creati da un’azienda locale, che manteneva caldo il cibo per 30 minuti. Ma c’è dell’altro»
Dica?
«Il salone del ristorante è stato trasformato in un grande spazio
di coworking: quindi è stato diviso in tanti piccoli uffici con singole
scrivanie. Per riuscirci, ci si è appoggiati a una società di franchsing
esperta in questo tipo di operazioni. E per riempire gli spazi è stata lanciata una persuasiva operazione di marketing non basata su uno slogan, ma rivolta a un preciso target interessato a operare in piccoli spazi con postazioni autonome, e incentrata sui vantaggi di questo nuovo stile di lavoro: risparmio dei costi e possibilità di fare networking con altri “inquilini”. Infine, un’ultima annotazione».
Racconti.
«I piatti del delivery erano diventati così ricercati che, vicino alla cucina, è stato riservato uno spazio per corsi di cucina online. Insomma, l’imprenditore è passato dal gestire un ristorante tradizionale in crisi a consegnare con successo cibo nelle case e nelle aziende, a guadagnare dagli affitti degli uffici e a rendere fruttuosi i corsi online di cucina».
Proprio un’altra vision.
«Oggi lavoro molto con le imprese di logistica e di supply chain: altro mestiere e altri business da reinventare. La mia professione, quindi, è quella di offrire suggerimenti e contenuti di qualità che stimolano domande e riflessioni. Dicendo anche cose scomode».
Quel ristoratore ha vinto perché ha accettato di cambiare.
«Certo. Spesso il cambiamento dipende da situazioni delle quali le aziende non hanno alcun controllo».
Per esempio?
«Vi ricordate Blockbaster? Una grande l’idea:porti il film a casa, te lo guardi seduto sul divano da solo o con gli amici. Netflix, copiando Blockbaster, aveva seguito lo stesso business. Poi è arrivato Internet. Blockbaster non ha visto il pericolo ed è fallita nel 2000 con un gran botto. Netflix si è, invece, adeguata offrendo un servizio di streaming che consente di guardare film e serie TV su un dispositivo connesso a Internet».
La morale?
«Bisogna adattarsi ai cambiamenti. Mio padre era un imprenditore instancabile, sempre immerso nel lavoro, un uomo che non si arrendeva mai. Purtroppo non è stato in grado di capire e gestire i cambiamenti e l’azienda è fallita. Io insegno alle aziende a non fallire».